Dimmi quanti figli hai e ti dirò che cristiano sei

Nella Chiesa quelle che vengono definite famiglie numerose (dai tre figli in su) sono sempre state portate come esempio, per la loro “coraggiosa apertura alla vita”, perché i figli sono una benedizione di Dio e “beato l’uomo che piana ne ha la faretra”… tutto bello e giusto dato che fare figli oggi è una scelta azzardata, che può costare molto e basti pensare a quante famiglie scendono al di sotto della soglia di povertà quando arriva un bambino in più. Per questo se ne fa anche una bandiera per battaglie politiche, giuste o meno, e si portano in giro per le Diocesi a fare testimonianze, utilizzando i figli come biglietti da visita: “madre di quattro”, “padre di cinque” e così via.

Però.
Però c’è tutto un mondo là fuori e anche dentro la Chiesa che non può permettersi di scegliere se fermarsi a due figli o farne 3 o 4, che questa scelta semplicemente non ce l’ha perché i figli non arrivano o ne arriva uno solo, o magari quelli che arrivano non fanno in tempo a venire alla luce, ma raggiungono Dio senza prima passare dalle braccia dei loro genitori. E allora che si fa? Non si parla più dei bambini? Non si chiede che le famiglie vengano sostenute e aiutate? No, no per carità, ma almeno all’interno della Chiesa mi permetto di chiedere un po’ più di attenzione.
Se c’è una cosa che mi è chiara è che quando si tratta di figli si ha a che fare con uno spazio sacro della vita della persona e della coppia, tanto che bisogna togliersi i calzari ed entrare con la più grande delicatezza e rispetto possibili. Per questo provo tanto disagio quando vedo persone che hanno ricevuto il dono di molti figli parlare come se il resto del mondo avesse scelto di non seguire il loro fulgido esempio, come se l’alternativa alla famiglia numerosa fosse necessariamente il controllo egoistico delle nascite. E se questo, forse, socialmente è diluito, non lo è nei nostri contesti ecclesiali nei quali – dai gruppi famiglie parrocchiali ai movimenti – le coppie che non possono avere figli si sentono spesso tagliate fuori dai discorsi e dalle occasioni formative e quelle che ne hanno solo uno (per motivi che nessuno ovviamente approfondisce) vengono considerate in sostanza chiuse alla vita e colpevoli di “condannare” i propri figli ad essere figli unici. Credo che come comunità dobbiamo interrogarci profondamente su quanto sappiamo accogliere e comprendere le situazioni delle famiglie, per come sono realmente e non per come ce le rappresentiamo, e rinunciare non al messaggio dell’apertura alla vita, ma a farne un giavellotto da scagliare sugli altri.
Ricordo con grande sollievo quando Papa Francesco ha detto che “essere cattolici non significa fare figli come conigli”, ebbene nel suo invito alla procreazione responsabile, che nulla toglie al valore e alla testimonianza delle famiglie numerose, io ho letto un messaggio –finalmente- sul fatto che non è la numerosità dei figli a far si che una famiglia sia il luogo del dono reciproco, ma il fatto che due persone scelgano di amarsi e di aprirsi alla vita nel senso più ampio.
È la famiglia a fare i figli, non i figli a fare la famiglia.

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