Relazione di Paola Lazzarini allo Spazio Asmara (23 Aprile 2018)

Una piccola premessa autobiografica: io, un po’ come tutti credo, sono cresciuta con l’idea che, dopotutto, fosse normale che nella chiesa ci fosse una gerarchia interamente maschile, da ragazzina la cosa non mi disturbava anche perché in ambito giovanile i cammini sono abbastanza comuni, ma crescendo ho sentito via via con maggior fastidio il fatto che la gerarchia fosse maschile, ma anche il diverso trattamento che – nel periodo delle grandi scelte – si vive tra maschi e femmine. Questa situazione si è unita alla crescente fatica di essere compresa e accompagnata nel mio cammino spirituale. Finché una esperienza (che ora vedo come piccola, ma allora fu piuttosto traumatica) intorno ai 24 anni mi mise di fronte al dato di fatto che noi donne valiamo meno degli uomini nella chiesa, e negli anni attraverso un cammino vocazionale abbastanza tortuoso, ho potuto declinare quell’intuizione sul “valere meno” in molti modi: vale meno la nostra vocazione, si può dare per scontata la nostra presenza, valgono meno anche le nostre competenze, gli studi fatti, valgono meno i nostri talenti, vale meno il nostro desiderio.

Questa è la premessa, un’esperienza che intuivo non fosse solo mia, così come il disagio.

Alcuni mesi fa, in seguito a un articolo che avevo scritto sulle nascenti organizzazioni femminili connotate da un’impostazione ultra tradizionalista, diverse donne (che conoscevo e che non conoscevo) mi hanno scritto dicendomi che avrebbero voluto fare qualcosa. Non era la prima volta, stavo ricevendo già da tempo richieste in questo senso, come dovessi io organizzare qualcosa, ma continuavo a dire che non ero la persona adatta, non avevo la preparazione adeguata, vivo su un’isola, ho un’impostazione familiare che mi impegna… Dopo quell’articolo però le richieste sono state pressanti e qualcosa in me è scattato, ho sentito che era ora di passare dalla riflessione all’azione, buttando giù tutte le mie insicurezze, remore, paure: era il momento giusto, per me e per le persone che avevo vicino. Così ho dato vitainizialmente a un gruppo FB con una cinquantina di donne: abbiamo avviato un percorso di riflessione utilizzando come schema quello della revisione di vita, adattato allo strumento fb e il percorso è durato circa tre mesi, abbiamo analizzato il problema che vedevamo, abbiamo cercato di guardarlo alla luce della Parola di Dio e ci siamo chieste cosa volevamo fare. Attraverso questo cammino siamo arrivate alla scrittura del manifesto. Durante la scrittura e soprattutto al momento di firmare molte non se la sono sentita di continuare, ma siamo andate avanti lo stesso pubblicando, da cinquanta eravamo diventate circa 30. Le donne del gruppo provengono da tutta Italia (abbiamo una buona rappresentanza del sud: puglia, basilicata, calabria e sicilia, ovviamente dalla Sardegna e poi Lazio, Umbria, Marche, e risalendo tanta Lombardia, tanto Piemonte, Veneto e Friuli). Provengono da esperienze diverse: molte dal mondo associativo, ACLI e AC in particolare, altre impegnate in parrocchia o nelle loro diocesi, donne che da anni non si impegnano direttamente in una realtà ecclesiale o che non l’hanno mai fatto e seguono un proprio percorso di ricerca. Ecco, per dire che in tanta varietà di esperienze e di provenienze – curiosamente – i nodi problematici erano comuni a tutte. Ed evidentemente non solo a noi dal momento che una volta pubblicato questo manifesto ha preso il volo, ne hanno parlato Jesus, Adista, Donne chiesa mondo dell’Osservatore Romano e – dopo questo – anche il New York Times e The Guardian. Le firme sono diventate più di cento e continuano a crescere: le nostre parole non sono più solo nostre.

Ora portiamo avanti il nostro sguardo con una pagina FB abbastanza seguita e in crescita costante, seguiamo con interesse il lavoro di voices of faith (organizzazione internazionale per l’advocacy femminile nella Chiesa) e stiamo programmando una serie di incontri territoriali di donne che possano sostenersi e lavorare insieme, secondo gli scopi del Manifesto. Tra digitale e materiale (dato che consideriamo reali entrambi) cerchiamo di trovare la nostra strada alla luce delle occasioni e delle interpellanze che ci arrivano dalla realtà. Camminando un giorno per volta.

Direi che a segnare le tappe di questo cammino è stata la ricerca di una voce, in Francia dicono “osare la parola” e io per molto tempo ho dato per scontato che sarebbe stato sufficiente l’impegno delle teologhe e delle religiose. Non è così: la Chiesa di oggi, la Chiesa che mia figlia incontrerà iniziando Catechismo tra qualche mese è ancora più androcentrica, misogina e arroccata di quella che avevo conosciuto io e per questo non si poteva più aspettare. Così abbiamo preso la parola come donne credenti e non perché le teologhe e le religiose non parlino e non agiscano, lo fanno con competenza e coraggio da decenni, ma evidentemente non basta, come non è mai bastato che fossero le èlite illuminate a fare la rivoluzione (grande o piccola), c’è sempre stato bisogno delle masse: noi siamo massa, noi siamo le donne che fanno catechismo, che sistemano i fiori in chiesa, quelle che organizzano la tombola per gli anziani e coordinano l’oratorio estivo.

Quello che ha fatto scattare il nostro bisogno di esporci e di mettere nero su bianco problemi e prospettive è la consapevolezza che c’è una propensione a dirci “ma di cosa vi lamentate?” in fondo ora possiamo frequentare le facoltà teologiche e qualche donna in posizioni di responsabilità c’è, magari più per far figura che per prendere parola, ma c’è. Allora la tentazione di restare in silenzio è forte, anche perché dire che siamo tanto felici e ci sentiamo tanto valorizzate da questa chiesa testosteronica, è conveniente da tutti i punti di vista, non ultimo a far vendere libri, eppure non si può tacere, perché in gioco c’è l’alienazione di più di metà della chiesa cattolica (circa 600 milioni di persone) e quindi siamo noi donne credenti a doverci muovere ora, nel nostro piccolo. Non è sufficiente un avamposto, aver conquistato qualche cattedra in facoltà teologiche o essere capoufficio della congregazione per la vita consacrata, finché le donne che frequentano le parrocchie, quelle che fanno catechismo, le donne che stanno nei Movimenti, sperimentano ancora (cito il Manifesto): “l’incapacità di essere viste e valorizzate nelle nostre competenze e specificità e questo ci priva troppo spesso di un reale riconoscimento”. In tutto il mondo le donne si stanno muovendo, qualcuno dice che è in corso un #metoo cattolico. Io non ne sono sicura, anche perchè in Italia – purtroppo – le cose si muovono meno che altrove, e questo l’ho toccato con mano partecipando a un evento internazionale promosso da Voices of faith, nel quale a mancare (pur essendo a Roma) erano proprio le italiane. Però si può avviare.

Quello che stiamo facendo ora, quindi, è cercare di dare voce alle donne, dando spazio (nella misura delle nostre possibilità) a testimonianze di donne, ma anche al pensiero delle teologhe, alle storie delle sante e intanto iniziamo a incontrarci, per sostenerci, per camminare insieme. Lo scopo è difficile da definire, ma intuisco che abbia a che fare con l’autorità: con il dare autorità alle donne, perché senza questo non si può cambiare nulla. Autorità è una parola che in ambito cattolico si declina esclusivamente al maschile e proprio qui sta il problema: Giovanni Paolo II ha parlato di genio femminile (ripreso recentemente da Papa Francesco nella Gaudete et exsultate), ma il cuore della questione non è più riconoscere che esiste uno specifico femminile nella spiritualità, una modalità femminile di leggere la Scrittura, bensì che esista una specifica autorità femminile e che questa autorità nella Chiesa manchi. Autorità (auctoritas) contiene la parola auctor, “autore”, colui che in qualche modo è protagonista, “creatore” di una parte della realtà, ma ha anche un’altra radice ed è il verbo augere, che significa “aumentare, far crescere, generare”. L’autorità ha dunque dentro di sé il significato del far crescere: è autorità quella che riesce a diventare generativa nella relazione con le persone, l’autorità che rafforza l’altro, che fa crescere l’autorità dell’altro. In questo senso noi chiediamo all’autorità ecclesiale di essere generativa con noi e offriamo la NOSTRA capacità di essere autorità generative.

Quante volte ci è stato detto che “va bene chiedere spazio per le donne, ma non deve diventare una ricerca di incarichi e potere”? Noi stesse l’abbiamo scritto eppure più ci rifletto e più mi domando: e perché no? Perché il potere, che non è altro che la facoltà di “poter fare” esercitando autorità, deve essere un tabù per le donne? Per gli uomini non è così, agli uomini è concesso di servire Dio anche nelle loro responsabilità e nei loro incarichi; alle donne invece no: se una donna dovesse pensare di voler avere un ruolo riconoscibile o – ancor peggio – di responsabilità su altri per servire al meglio il Signore e i fratelli sarebbe redarguita immediatamente per la sua superbia. Dobbiamo iniziare ad assumerci delle responsabilità nelle nostre comunità in virtù delle competenze e dei talenti che il Signore ci ha elargito nella sua libertà e liberalità, ma per farlo occorre che ci liberiamo noi per prime dal tabù dell’autorità, dalla paura della prima linea: il potere è servizio e non dobbiamo temerlo, né ad alcuno è lecito negarcelo solo perché siamo donne.

Tutto questo discorso sembra condurre inevitabilmente alla grande domanda, ineludibile, che noi donne cattoliche non possiamo non porre e che riguarda la possibilità di ordinazione presbiterale per le donne (ipotesi rimessa in campo dal cardinal Schönborn nei giorni scorsi dicendo che occorrerebbe un concilio per parlarne), ma sulla quale Giovanni Paolo II ha posto il macigno della Ordinatio sacerdotalis. Anche noi nel nostro gruppetto iniziale e sulla pagina ci troviamo spesso a discuterne e le posizioni sono diverse, direi che le parole che personalmente sento più sagge e che vorrei lasciarvi come spunto sono le parole di Mary McAleese (ex presidente della repubblica irlandese): “il Papa ha detto che questa possibilità è esclusa e allora io non discuto nemmeno e cambio la questione: dato che escludi le donne dal sacerdozio e dato che tutte le decisioni e il discernimento ecclesiale sono filtrati dal sacerdozio, come intendi includere le donne e dare loro piena uguaglianza nella Chiesa?” ecco, questa è LA domanda.

Quello che ci muove è il pensiero delle nuove generazioni! Una ricerca americana dice che nei millenials le giovani donne si stanno allontanando dalla chiesa più dei coetanei maschi (ed è un fenomeno che si registra SOLO nella chiesa cattolica, non nelle confessioni protestanti), e le ragioni sono da ricercare senz’altro nella mancanza di leadership femminile, di modelli affascinanti di donne credenti, di un bisogno fondamentale di superare vecchie narrazioni sul ruolo femminile in famiglia, ma anche di una vera comprensione dei loro bisogni, della loro realtà, penso solo alla questione dell’omosessualità.

Il nostro gruppo è piccolo, sta nascendo e non sappiamo cosa combinerà, ma almeno una cosa pensiamo di averla fatta: abbiamo intercettato un bisogno e cercato di dargli voce.

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Un commento

  1. Testo molto interessante ed equilibrato.Continuate! Bonne route!

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