La rabbia delle donne e la nonviolenza

Sono una femminista, perché, ancora, esiste una questione di genere nella Chiesa e nella società. Talvolta ho provato e provo rabbia. Rabbia per quelle frasi e attitudini maschiliste che non mi fanno sentire completamente legittimata a occupare uno spazio di pensiero e di azione nella mia comunità ecclesiale. Sono cresciuta con una serie di ‘ma’: per il fatto di essere biologicamente femmina mi sono sempre stati preclusi alcuni accessi a incarichi o anche solo alla libera parola. Puoi farlo ma… Puoi partecipare ma…

Questi ‘ma’ hanno creato delle fessure dentro di me, dalle quali non ho sempre la saggezza di scorgere nuova vita. Alcune volte, queste fessure, diventano le lenti con le quali vivo la Chiesa e me ne allontano.

Noi donne non sempre siamo legittimate a esprimere questa rabbia, perché andrebbe a destabilizzare quell’immagine stereotipata del femminile docile, tenero, accogliente.

Quando, sin da piccola, non riuscivo a ritrovarmi dentro questo stereotipo, sentivo tutta l’inadeguatezza che derivava da questa mia eccentricità.

Quando ho incontrato altre donne arrabbiate e ferite dalla Chiesa, ho sentito che quella rabbia era legittima. Abbiamo diritto a provarla, riconoscerla, accoglierla, lasciare che trovi spazi opportuni per condividerla, metterla in parole.

Quali sono questi spazi opportuni? Come concilio nonviolenza e gestione della rabbia?

Questa riflessione è nata dopo aver letto l’articolo ‘Nonviolenza e rabbia faccia a faccia con le ingiustizie patriarcali’, di Monique Hamelin et Marie-Andrée Roy ([1]).

Loro individuano tre passi importanti per conciliare queste istanze, in apparenza, in contrapposizione:

  1. Mantenere la stima di noi stesse
  2. Imparare a conoscersi e ad ascoltarsi
  3. Ricordarsi che la nonviolenza è la sorella della pazienza.

Le autrici si domandano come non rispondere in modo violento a attitudini, parole e prassi che sono violente e opprimenti?

Allora mi sono detta che è una questione di spazi e contesti: essere parte di un’associazione come Donne per la Chiesa mi offre uno spazio sicuro e protetto affettivamente, per poter dire e raccontare la mia rabbia; condividerla, nominarla, oggettivarla. E da lì ripartire insieme ad altre per poterla socializzare e trasformare in parola, in richieste chiare e assertive.

Quindi, ci sono contesti dove questa rabbia può trovare luogo; altri, quelli pubblici, dove è necessario mediarla, senza negarla; trasformarla in parole che sanno dialogare, aprire varchi, osare cammini inediti.

Conciliare, riconoscimento della rabbia e del dolore con un approccio nonviolento alle lotte che porto avanti, è il mio desiderio. Per farlo sento che devo fare un percorso interiore di riconciliazione, senza mai occultare l’ingiustizia e la violenza che mi aggredisce come donna cristiana e femminista. Questa violenza la sento ogni qual volta a una donna, a una giovane, a una bambina non si permette di aprire le ali a causa del suo genere.

Patrizia Morgante


[1] Originale francese dell’articolo di Monique Hamelin et Marie-Andrée Roy, Groupe Vasthi, “Non-violence et colère vis-à-vis des injustices patriarcales : s’outiller et agir comme féministes et chrétiennes” (presente nella rivista n. 162 L’Autre Parole: https://www.lautreparole.org/numero-162-sur-la-non-violence-feministe/)

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