Testimonianza 1: in quanto donna sono un’interlocutrice?

L’inizio del mio percorso è stato dei più scontati: la ricerca di senso dell’adolescenza passata attraverso il volontariato e l’impegno in un gruppo, l’insoddisfazione di una fede rimasta ai rudimenti del catechismo e l’approdo a un maggiore approfondimento teologico. La vitalità dei 20 anni faceva il resto. Mi sentivo fortunata per le possibilità che avevo di approfondire con vari mezzi – di cultura e di esperienza pratica – la gioia che mi dava la fede, a cui non volevo rinunciare. C’era sempre e riaffiorava puntualmente in parallelo a tutto questo una certa inquietudine che diventava disagio in alcune situazioni specifiche, che io attribuivo a come gli altri mi vedevano ossia una ragazza giovane quindi poco credibile nel suo impegno. Ogni volta che si rimarcava una mancanza di “umiltà” se facevo un rimprovero (quindi non avevo autorevolezza?), o che si tendeva a isolarmi e a definirmi “bambina capricciosa” se ponevo interrogativi o dissensi (quindi non ero un’interlocutrice?), o se non potevo parlare in certe circostanze perché non avevo un marito (quindi la mia vocazione personale non esisteva per gli altri?), tutto ciò quindi dipendeva dalla mia età? Negli anni ho ascoltato di più questo disagio tenendolo sempre in relazione col discorso vocazionale. Ho notato la tendenza a incasellare la vocazione in poche “vocazioni” e a presentarle, anche nella catechesi, come qualcosa di predefinito da scoprire all’improvviso, in alcuni casi con qualche pressione in una direzione o in un’altra. Mi sono fatta carico dei sensi di colpa che albergavano in me per tutti i “no” che dicevo nell’intento di seguire le mie idee anche nelle occasioni in cui venivo giudicata male. Quindi, in sostanza, dentro un contesto che offriva (e offre) molte possibilità di “fare” – dal volontariato agli incarichi di responsabilità in qualche realtà associativa – ho trovato molto più arduo “l’essere”, specie come risposta di fede, cioè avere i propri tempi, le proprie intuizioni o la propria visione di una determinata realtà. Per me, che non sono sposata, non ho figli, non sono consacrata, questi “non” hanno avuto più peso, nella realtà ecclesiale conosciuta da me e nella famiglia che in essa si rispecchia, di tutto ciò che in positivo invece ero e sono. Ora che nell’età di mezzo ho tralasciato certi impegni che mi hanno assorbito tanto in passato ancora sto faticando, anche con me stessa perché tanto pesano i condizionamenti, per imparare a far valere l’essere del mio Battesimo, che già mi determina e mi qualifica come cristiana e mi permette di vivere l’amicizia e i rapporti fraterni. Non mi rispecchio tuttora nei modelli familiari proposti da una certa parte della mia Chiesa, nella strumentalizzazione persino politica della famiglia e nei ruoli interni che ne derivano. Non mi rispecchio neanche nel clericalismo che impone implicitamente a tutti, donne e uomini, il precetto del silenzio che si traduce non tanto nel non poter parlare ma nel dover evitare confronti, discussioni, divergenze, cose ancora viste sotto una luce negativa, come volontà di egoismo, presunzione o superiorità. Ieri come oggi. Cammino più libera di prima direi, anche se più stanca, e con molta più soddisfazione ma sento di aver perso qualcosa strada facendo, di avere consumato qualcosa di me stessa, dentro tutta questa fatica, che non posso più ritrovare. Vorrei che le relazioni intraecclesiali fossero per tutti e per tutte più libere e coinvolgenti perché altrimenti dubito che come Chiesa cattolica riusciremo a farci capire nella società, nei rapporti con le altre Chiese o con altre Religioni. Abbiamo dei problemi di comunicazione che partono da dentro, da noi, dal maschile e dal femminile.

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