Dialogo tra donne e preti nella Chiesa: risorse, problemi, prospettive.

di Rita Torti

(da Presbyteri n. 9/2015)

Una normale riunione in parrocchia, un incontro associativo, una conversazione casuale… indipendentemente dall’occasione e dall’argomento, molte volte ho visto svilupparsi senza preavviso un’istantanea e bruciante vampata: “Sì, con il maschilismo che c’è nella Chiesa…”, “Ah, beh, visto come i preti considerano le donne…” “Non sai cosa avrei da raccontare su come ci trattano, meglio che non cominciamo neanche”.

Non avevo davanti delle anticlericali arrabbiate, ma donne che tutti i giorni con i preti collaborano, fanno progetti, si occupano di Bibbia e di poveri, di catechismo e di liturgia: signore di cinquanta o sessant’anni istruite, competenti nelle cose di Chiesa e che si spendono senza riserve per la comunità, giovani donne impegnate nella pastorale, suore di grande esperienza. Cosa c’è, dunque, che non va, quali sono i nodi in cui si incaglia la relazione con i preti, dal nostro punto di vista? Se ripenso alla mia esperienza e a quella delle amiche con cui ho condiviso la quotidianità dell’essere cattoliche (forse per altre la storia sarà andata diversamente) avverto un problema legato al tempo, alla crescita. Il rapporto con il parroco, con l’assistente dell’associazione, con il prete-educatore, con la guida spirituale nasce felice, almeno per quanto riguarda le ragazze che eravamo ormai alcuni decenni fa. Nel prete si trovava un interlocutore significativo con cui parlare, confidarsi, da cui farsi accompagnare, a cui chiedere consiglio e che apprezzava e incoraggiava il tuo impegno nella comunità (a volte “bruciandoti”, è vero, ma è un altro discorso); ai “nostri preti”, in molti casi, dobbiamo il dono inestimabile di averci trasmesso, con convinzione e passione, i testi e lo spirito del Concilio. Per tante di noi queste relazioni sono state un autentico e vitale fondamento. Così è stato anche per diversi nostri coetanei (anche se meno numerosi, e la ragione di questa disparità è interessante da indagare), ma se per i ragazzi il passare del tempo ha significato un’evoluzione del rapporto nella continuità, per noi è stato piuttosto un graduale distacco non voluto e doloroso, a cui si è cercato di porre rimedio ma raramente con risultati apprezzabili. Non viene meno l’affetto, ma si sente che ad un certo punto la maschilità del prete diventa un ostacolo; non perché lo sia in sé, ma perché tende a porsi come legge e criterio interpretativo anche rispetto a ciò che non può sperimentare, cioè l’essere donna. In molte l’abbiamo avvertito non solo ascoltando omelie e predicazioni da questo punto di vista discutibili e a volte sconcertanti, ma anche, nei rapporti interpersonali, ogni volta che le nostre strade, le nostre scelte, le aspirazioni e acquisizioni più profonde si discostavano dal modello femminile che il prete, consapevolmente o no, aveva in mente, ritagliato su “bisogni” maschili, proiezioni antiche e nuove, estraneo e inadeguato rispetto al senso di noi stesse che via via maturavamo in quanto donne cristiane e, come si dice, “praticanti”. Credo siano rarissimi i casi in cui questa dissonanza non si è tradotta immediatamente in implicita o esplicita disapprovazione nei nostri confronti e ha spinto invece il presbitero a mettersi in dialogo, magari con un sano e semplice “sai, mi mette in difficoltà il tuo modo di essere donna, quello che dici, quello che fai. Mi aiuti a capire?”. Molto più spesso è iniziato a scattare il ritornello: “ah, ma tu sei femminista”, “ah, ma tu rivendichi”… “ecco che arriva quella delle donne…”. Il messaggio che arriva è: mi vai benissimo finché ti mimetizzi nel pensiero che ho costruito su di te in quanto donna; diversamente, sei tu che sbagli. A questo punto alcune di noi se ne vanno, molte altre invece soprassiedono: è troppo importante per loro che la comunità vada avanti, che la catechesi non si interrompa, che il gruppo biblico prosegua il suo lavoro, che la distribuzione dei vestiti continui o che la liturgia non sia “fatta” solo dal prete. Il prezzo che si paga, però, è un’alterazione del rapporto: ho capito che con te di certe cose non posso parlare; collaborerò comunque ma, per amor di pace, quello che capisco di me e del mondo a partire dal mio essere donna lo tacerò. C’è da rallegrarsi di una scelta di questo tipo, solo perché garantisce che la parrocchia il gruppo, l’associazione vadano avanti? Io non credo. Non solo infatti l’apparente guadagno di tranquillità nel presente si trasforma (la storia ce l’ha ampiamente mostrato) in un ritardo della Chiesa nella comprensione della realtà e del vangelo, ma – per restare sul piano delle relazioni concrete – c’è il problema di quale tipo di maschile e di femminile vengono in questo modo perpetuati. Ad esempio, diverse di noi avvertono la mancanza, o quantomeno la debolezza, di una riflessione dei presbiteri sul rapporto tra la propria maschilità e l’essere ministri ordinati. La presidenza, l’autorità e in generale tutti gli aspetti che per dottrina o per consuetudine fanno parte del concreto “essere prete” nella comunità sono posti infatti nelle mani non dell’umano, che è creato maschio e femmina, ma di una sua parzialità – il maschile, appunto. Ciò in teoria dovrebbe portare a declinarli ed esercitarli con adeguata cautela e consapevolezza di quel limite invalicabile. Non di rado, invece, l’impressione è che ministero e appartenenza di genere si saldino sulla base di un maschile ancora ritenuto depositario di oggettività e universalità di fronte a un femminile immaginato – nonostante le dichiarazioni di principio – come inferiore, oppure come custode di una dimensione “altra”, quasi angelicata, che però si deve esprimere nel silenzio, nell’oblatività, nella cura, nel “dietro le quinte”, e che se ha qualcosa da dire ce l’ha solo per le donne, e non per un riorientamento a due voci della pastorale, della teologia, dell’esperienza ecclesiale nel suo insieme. Gli effetti di questa eredità patriarcale bimillenaria si constatano quotidianamente in tanti ambiti del vivere sociale, ma la riserva maschile del presbiterato complica le relazioni tra donne e uomini rispetto a quanto avviene nei luoghi in cui in teoria ogni ruolo può essere ricoperto sia da uomini che da donne: per i preti acquisire la consapevolezza della propria parzialità maschile e pensarsi in una dimensione di ineludibile reciprocità è un percorso certamente più complesso che per altri uomini. “Noi maschi nella Chiesa – ha detto padre Alessando Barban, priore generale dei Camaldolesi, in un’intervista all’Osservatore Romano del 4 ottobre 2014 – studiamo Maria ma non riusciamo ad arrivare alla contemporaneità, a un’antropologia biblica dell’Adam maschio e femmina. Ancora oggi la donna è la costola, e stop. Se leggiamo il catechismo, troviamo questo tipo di impostazione. (…). Ci sentiamo sempre un gradino più in alto di voi donne”. In questo gioca un ruolo importante la formazione, come ha sottolineato – sempre sull’Osservatore Romano (22 settembre 2015) – Lucetta Scaraffia: “I seminaristi hanno rapporti quotidiani solo con donne che li servono: un imprinting che li segnerà per la vita (…) Finché non ci saranno donne che insegnano nei seminari e finché i futuri preti non avranno modo di avere rapporti con figure femminili autorevoli e più sagge di loro, il rapporto fra donne e preti rimarrà sempre prigioniero del paternalismo. Un paternalismo ormai inaccettabile agli occhi delle giovani di oggi”. Il richiamo al paternalismo può farci riflettere su una delle immagini di sé a cui i preti di ieri e di oggi vengono orientati: la paternità. Essa risulta sbilanciata dal fatto che accanto a questo “padre” non c’è mai una “madre” corrispondente. E’ paradossale, in un’istituzione che con molta insistenza sottolinea l’importanza per ogni persona di crescere con un papà e una mamma nella loro differenza, che i preti stessi abbiano solo padri e maestri, e che una donna possa invece arrivare a 50, 60, 70 anni senza che mai dalla “paternità” dei preti venga la sollecitazione a farsi accompagnare anche da una madre spirituale, o almeno l’invito a leggere scritti di teologhe e bibliste nella cui ricerca autorevole potersi riconoscere. Sulle donne questa interpretazione autosufficiente della paternità presbiterale rischia di produrre non solo la percezione di estraneità e il disagio cui si è già accennato, ma anche un effetto opposto, altrettanto negativo: l’adeguamento. Sia nelle parrocchie che in realtà ecclesiali più ampie non è raro incontrare donne gelose del ruolo “tradizionale” in cui vengono collocate, e che mal sopportano chiunque prospetti la possibilità anche di altri modi di essere donne pienamente cattoliche o semplicemente, commentando la Sacra scrittura, segnali in esse la presenza di figure femminili molto differenti tra loro e le ricorrenti trasgressioni, da parte di Gesù, nei confronti delle prescrizioni di genere (maschili e femminili) del suo tempo. Queste reazioni negative mi hanno spesso sorpresa e interrogata. C’è chi ritiene che la “secondità femminile” (esaltata come un valore) sia biblicamente fondata: “Dio ha creato la donna perché sia d’aiuto all’uomo”, si legge ad esempio sul sito internet di una realtà ecclesiale che mette a tema proprio il rapporto tra presbiteri e donne. Si tratta di un’esegesi superata, ma se anche fosse valida rimane la questione concreta delle dinamiche che si infiltrano in questo tipo di comprensione del femminile in rapporto al maschile ordinato, condizionando pesantemente la vita delle comunità. Quando infatti appare chiaro che un prete vive con difficoltà il fatto di avere attorno a sé (anzi, biblicamente, “contro” di sé”) donne che vivono e pensano la fede in modo autonomo rispetto ai modelli pensati per loro dagli uomini, allora è molto facile che si instauri una contrapposizione fra le “brave cattoliche” e le altre, con le prime che sacrificano la sorellanza e l’amicizia con le altre donne (a volte anche la semplice lealtà) all’altare di quel po’ di potere o di riconoscimento che viene loro dalla preferenza accordata dal parroco o dal monsignore. Niente di nuovo, si dirà: le relazioni tra dominanti e dominati funzionano sempre e dovunque così. Vero; ma il problema sta proprio nel fatto che tra preti e donne si viva come tra dominanti e dominate. Se si vuole cambiare, le donne hanno da fare la loro parte; altrettanto ce l’hanno i presbiteri, che forse non sempre intuiscono come quella che a loro appare come maggiore “bontà” e “femminilità” di alcune può essere anche l’esito di una distorsione, una strategia di sopravvivenza in un contesto relazionale e istituzionale in cui esprimere direttamente e limpidamente, come donne, la propria coscienza e la propria voce comporta la disponibilità a sopportare sorrisini, battute, richiami all’umiltà e sospetti di eresia. Gli inciampi ci sono, dunque, tra donne e preti, e non solo quelli raccontati fin qui. Ma l’esperienza mia personale e quella di altre e altri dice che, se li si conosce e li si affronta per quelli che sono, è possibile costruire una relazione che non teme il conflitto e si lascia custodire dal disegno originario dei due che sono creati, e devono rimanere, “di fronte”. Dei tanti doni che ho ricevuto dai preti della mia vita il più grande è forse quello di un autentico maestro di preghiera e di vita interiore che, dopo anni di intenso accompagnamento spirituale, il giorno in cui è stato chiaro che alle domande e alla ricerca nate dal mio essere donna non bastavano più i percorsi pensati “altrove”, semplicemente si è fermato: “qui io non posso aiutarti”. Ha liberato me, ma forse prima di tutto se stesso.

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