La creazione dell’Umano (terza e ultima parte)

di don Luciano Locatelli

Abbiamo considerato come varie caratteristiche, in questo testo, avvicinino l’umanità agli animali.

L’umanità è creata lo stesso giorno delle bestie terrestri e partecipa della benedizione sugli animali del quinto giorno; è sessuata (“maschio e femmina”) e molteplice (li creò) come il regno animale. Questo è un modo per dire che “l’animalità” non è solo una realtà esteriore all’umanità, ma è una parte costitutiva dell’umanità stessa e quindi anch’essa oggetto di quel dominio mite di cui abbiamo detto. Pertanto per realizzarsi a immagine di Elohim l’uomo deve assumere l’animalità interiore dominandola, e questo sia a livello individuale che collettivo.

A livello individuale i termini “maschio e femmina” potrebbero indicare che l’animalità rimanda alla sessualità e al desiderio. Se non è dominata, se non accetta il limite, una tale forza può degenerare. In altre parole: in ogni “umano” vi è un che di “animale” che aspetta di essere umanizzato. In se stesse queste forze vive sono neutre, né buone né cattive. Si tratta di “dominarle” in modo che possano dispiegarsi per far “fruttificare” la vita, “moltiplicarsi” e “riempire” lo spazio che spetta loro.

“… ci sono delle forze che, come pesci, sembrano sfuggenti, inafferrabili. Nascoste nelle nostre profondità, nell’oscurità dei grandi fondali, possono talvolta assumere l’apparenza di quei mostri marini di cui il testo parla evocando la creazione della fauna acquatica. Ci sono le forze dello spirito, sottili, libere e aeree come i volatili, i quali, grazie alle loro ali, attraverso gli spazi, prendono l’altezza necessaria e sfuggono alla presa dell’hic et nunc. C’è tutto quello che ha a che fare col corpo, quelle forze a fior di pelle, a immagine degli animali che brulicano sulla superficie della terra, alcuni domestici, altri più selvatici: è il mondo dell’affettività, delle emozioni, dei sentimenti. Diventare umano, non significa forse imparare a dominare, a poco a poco, tutto questo, ad addomesticare queste potenzialità, ad ammaestrare questa animalità, in modo da costruire, con essa e non contro di essa, un essere unico a immagine di Dio? Poiché, se cerchiamo di distruggere e soffocare queste forze, si rischia di vederle riaffiorare laddove non ci aspettiamo e con una forza maggiore, talvolta incontrollabile. Lenta emergenza, da riprendere di continuo e che necessita di un’intera vita”. (A. Wénin)

Tale animalità interiore non è solo questione individuale: è anche collettiva.

Quando Elohim affida all’umano il dominio sulla terra e sugli animali, lo fa utilizzando dei verbi molto forti, dal sapore militare. Risuona qui l’eco (udita dal narratore) del dominio che popoli o singoli spesso si arrogano sugli altri. È proprio questa violenza che Elohim invita ad “addomesticare” per il tramite del dono del cibo vegetale. Una nazione che, incapace di dominare la propria potenza animale, di porsi un limite, schiaccia, assoggetta o distrugge altri popoli, svela l’animale che la abita. Il libro di Daniele (4,13.22) presenterà Nabucodonosor proprio come un uomo dal cuore di bestia.

Per l’individuo, come per i gruppi umani o l’umanità intera, diventare umani significa imparare pazientemente a dominare questa animalità brulicante e potenzialmente violenta propria di ogni realtà umana. Lasciar emergere l’umanità significa dunque diventare “pastori della propria animalità”, come ha detto bene P. Beauchamp.

Letto in questo modo, il dono del cibo vegetale agli umani e agli animali risuona come un richiamo discreto per una relazione pacifica e continuamente pacificata con ogni vivente, compreso me stesso. “È un invito a costruire un vivere insieme in cui la forza si converta in autentica mitezza; invito, perciò a lavorare a una società in cui alterità e differenza abbiano diritto di esistere” (A. Wénin).

Resta un’ultima questione. Come può un umano (individuo o collettività) vivere con forza e mitezza il proprio dinamismo vitale? La via per addomesticare l’animalità è suggerita proprio dalla chiamata a somigliare al Creatore. Cos’è che permette a Elohim di dominare con mitezza lungo tutto il processo della creazione? Non si tratta forse della parola, soffio dominato e contenuto? In effetti proprio in questo racconto del Genesi la parola è il principio e la costante della mitezza di Elohim. Ecco allora tracciata la via per dominare l’animalità, per dominare, a immagine di Dio, le forze del proprio caos interiore: la parola. Questa è forse l’unica via da seguire affinché l’umano compia la sua umanizzazione, porti a compimento la sua immagine nella “somiglianza”. Solo così l’umano diventerà un pastore pieno di forza e di mitezza, a “immagine e somiglianza” del suo Creatore.

A condizione di non mettere mai, di non piegare mai in alcun modo la parola a servizio della violenza.

Una nota conclusiva

Questi spunti di commento e riflessione sono largamente e liberamente tratti dagli studi del prof. A. Wénin dell’Università di Louvain-la-neuve, Belgio, che conosco e a cui sono personalmente grato.

Vorrei solamente aggiungere, personalmente, che utilizzare questi testi del Genesi per “fissarsi” sulla differenziazione maschio-femmina a sostegno di teorie creazioniste o parimenti a sostegno di battaglie ideologiche in funzione della difesa tout court della famiglia, come ho avuto modo di osservare da più parti, non è altro che svilire il testo e defraudarlo delle sue splendide e profondissime ricchezze.

Credo che il narratore sia più interessato a educare il suo lettore a considerare la diversità come spazio in cui prendere consapevolezza del proprio limite personale e fare del limite accolto e della diversità accettata il luogo dove far brulicare la vita. Solo così la terra da brulla può diventare un giardino.

In caso contrario, sarà sempre “l’animalità”, anche se travestita da orpelli religiosi, ad averla vinta.

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