Ma se non è per sempre è senza valore?

Articolo apparto su “Noi, famiglia e vita” di Avvenire, 27 ottobre 2019

“La vita è quella cosa che ti capita addosso mentre fai altre cose”, cantava John Lennon e quanta verità in queste parole. C’è la vita sognata, la vita programmata, quella scelta e poi la vita che viviamo concretamente ed è fatta di andate, ritorni, binari già tracciati e sentieri da segnare. Sappiamo, per fede e per esperienza, che Dio ha scelto di abitare proprio quest’ultima: ha piantato la sua tenda in mezzo a noi, ben radicato nella realtà che viviamo, non nel mondo delle idee e neppure della buona volontà.

Per questo possiamo (o dovremmo poter) parlare, a cuore aperto, nelle nostre comunità, di tutte quelle esperienze della vita che non vanno esattamente come ci si aspettava e che richiedono discernimenti profondi, rotture dolorose, nuovi inizi… lo possiamo fare con la consapevolezza della fatica e della sofferenza che comportano, ma anche confortati dalla Parola “Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno”.

Se si è iniziato da tempo a porre attenzione alle coppie che si separano, divorziano e anche alle nuove unioni, pur con grandi lacerazioni, fino alle parole potenti nella loro semplicità dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia; ancora non c’è spazio per ciò che avviene alle persone che – dopo aver iniziato un percorso di consacrazione – decidono di “lasciare” congregazione e/o ministero e reimmergersi nella vita laicale. Si tratta, chiaramente, di numeri molto inferiori rispetto a quelli dei matrimoni che naufragano, eppure queste persone ci sono e meritano di essere guardate con attenzione e, quando il caso, sostenute e accompagnate.

Se ne parla pochissimo perché da una parte le persone coinvolte faticano a farlo, un po’ per la sofferenza attraversata e un po’ perché si tratta di un vissuto difficile da comprendere per i più; dall’altra perché ci si trova stretti tra chi – dall’esterno – saluta la decisione con sollievo (“ma che ci facevi lì dentro?!? Meno male che ne sei uscito/a”) sottovalutando la fatica che quel passaggio comporta, e chi – dall’interno – lo vede sempre e solo come un fallimento individuale, del quale sarebbe meglio che la persona si vergognasse e sul quale tacesse.

Può accadere che si debba lasciare la vita religiosa, specie negli anni di formazione, per decisione dell’Istituto a cui si appartiene e che non ritiene la persona adatta, ma spesso si tratta di una scelta del soggetto. Le motivazioni sono molte e rischiano di essere banalizzate.

Per inquadrare la questione vale la pena forse dire qualcosa sulla vocazione: c’è chi vede o – peggio – presenta la vocazione – qualsiasi vocazione – come un treno su cui si sale, sapendo a priori in quale direzione porterà, per cui le alternative sono: azzeccare il treno e andare belli dritti alla meta oppure accorgersi di aver preso il treno sbagliato e scendere in corsa (anche a rischio di farsi male), o ancora non farcela a reggere il viaggio, per qualche ragione, e quindi scenderne per debolezza. Questa ipersemplificazione è quella che sottende a espressioni del tipo “è uscita dal convento perché non sopportava quella vita”, “Ha lasciato la vita religiosa perché ha capito di essersi sbagliato”… ed è più diffusa di quel che si pensi. Ma vale anche per le tante rotture nei primi anni di matrimonio, quando la decisione di “fermarsi” è motivata da un disagio reale e, magari, dalla consapevolezza, che la propria vita ha assunto una piega indesiderata, imprevista, insostenibile proprio dal punto di vista spirituale.

In realtà se guardiamo alla vita delle persone, di tutte le persone, quale che sia la loro vocazione, più che un viaggio in treno su binari tracciati vediamo un sentiero di montagna, con alcune pietre miliari, ma in gran parte non battuto, da inventare, da cercare, da costruire. E questo perché la vocazione, la vera vocazione del cristiano, è una per tutti e Sant’Ignazio la esplicita all’inizio dei suoi Esercizi Spirituali: “L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e, mediante questo, salvare la propria anima; e le altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo, e perché́ lo aiutino a conseguire il fine per cui è creato. Ne segue che l’uomo tanto deve usare di esse, quanto lo aiutano per il suo fine, e tanto deve liberarsene, quanto glielo impediscono”. Da qui si capisce che anche gli stati di vita, per quanto importanti, sono al servizio di quella vocazione fondamentale e a quella devono rifarsi.

Questo può significare che, se nella preghiera, nel discernimento e nel confronto con chi ci accompagna spiritualmente, scopriamo che a un certo punto la vita religiosa non ci permette o non ci permette più di amare e servire il Signore pienamente, allora ha senso lasciarla e cercare quella pienezza altrove… insomma si può lasciare senza pensare affatto di aver “sbagliato strada”, ma semplicemente perché la propria strada “passava da lì”, da quell’esperienza che però è temporanea e non definitiva. Infatti, a differenza di quel che si crede, non sempre si esce perché ci si innamora o perché si cerca una vita più comoda, anzi, il desiderio di rispondere all’amore di Dio può esigere un’autenticità e una radicalità che magari da prete o da suora non si riesce a vivere. Racconta una giovane che ha lasciato la vita religiosa dopo circa dieci anni: “La mia vita era tranquilla, procedeva senza intoppi e avrei avuto buone occasioni per “fare carriera” in diversi ambiti, avevo la vita praticamente sistemata. Ed è stato esattamente questo che mi ha spento, cioè, sentire che la mia vita non era donata fino in fondo, avevo trovato il mio spazio ma non riuscivo a rispondere al bisogno di autenticità che tante persone incontrate cercavano. Mi sentivo quasi in colpa perché avevo tutto soltanto per il fatto di appartenere a una congregazione. Non sentivo la precarietà della vita, mi sentivo totalmente al sicuro”.

Guardare anche a queste esperienze di vita ci fa sbattere quasi violentemente su uno degli scogli più alti che il Concilio Vaticano II ha trovato: rivelarci che siamo tutti chiamati alla santità e che quindi nessuna vocazione è superiore all’altra e, certamente la sequela, che si vive nella vita laicale non è da meno di quella della consacrazione. Per questo non c’è alcuna “riduzione” nel passaggio alla vita laicale e al matrimonio, se prendiamo sul serio il nostro Battesimo, e la serietà e sincerità di chi ha il coraggio di rimettersi completamente in gioco, andrebbero valutate invece di parlarne come di vite “mancate”, non riuscite o errori.

È importante dire anche che raramente le congregazioni e/o le Diocesi si lasciano interrogare da quanti lasciano: si attribuisce sempre la responsabilità al singolo che o ha sbagliato a entrare, oppure sta sbagliando a uscire; non è mai un’occasione di riflessione istituzionale su come si favorisce o non si favorisce la sequela del Signore, per la quale si è nati e si esiste. Ci sono riflessioni e studi sui criteri di accesso alla vita religiosa e anche su come individuare, da parte dei formatori, i candidati non idonei… eppure difficilmente si pensa che proprio chi decide per una strada differente possa offrire chiavi di lettura importati. Ad esempio oggi ci sono giovani che sentono in maniera radicale l’importanza di scegliere stili di vita ecosostenibili, ma è molto difficile poterlo fare a meno di una conversione di tutta la comunità, non sempre possibile.

Ogni volta che una suora, un prete lasciano la vita religiosa senza che questo inneschi un processo riflessivo, è un’occasione mancata per la vita di quella congregazione o di quella Diocesi. Ritengo che il futuro della vita religiosa, in parte, passerà anche dalla valorizzazione di quello sguardo specifico che ha chi la lascia e che magari mette in crisi anche profondamente, ma spesso in maniera salutare, consuetudini che possono aver perso il loro senso lungo il tempo. E sarebbe auspicabile che anche chi si occupa di Pastorale familiare e chi offre il servizio della preparazione al matrimonio, si lasciasse toccare dalle esperienze di matrimoni che non funzionano, per non rischiare di offrire prospettive e approcci irrealistici, che rischiano di far sentire inadeguati e allontanano.

Ultimamente alcuni, come ad esempio don Mauro Leonardi nel suo blog, hanno acceso i riflettori sulle fatiche concrete di chi deve reinventarsi dopo 5-10-20 anni di vita religiosa, magari senza un titolo di studio spendibile, senza una professionalità e spesso senza un sostegno concreto da parte delle istituzioni che pure hanno servito per anni (non vale ovviamente per tutte). Eppure aiutare chi lascia a reinserirsi nel mondo del lavoro dovrebbe essere un dovere di giustizia, non un’opera meritoria lasciata al buon cuore di qualcuno, una volta elargita una minima buonuscita.

Ma c’è un altro elemento ancor meno visibile che andrebbe invece considerato.

In chi lascia il ministero o la vita religiosa c’è di solito una preparazione, ad esempio pastorale o teologica, che si desidererebbe poter offrire: eppure non c’è spazio, sia perché le necessità materiali sono tante e incombenti, sia perché un “ex” difficilmente viene riconosciuto. E questo comporta uno spreco di cuore, preparazione, capacità che potrebbero invece confluire nelle nostre comunità… Sarebbe reso ancora più semplice se si facesse strada l’idea che possono esistere operatori pastorali laici stipendiati, come avviene in tanti altri paesi europei. La Chiesa ha posto per le esperienze maturate, le competenze, i desideri di queste persone?  Perché il fatto che un’esperienza si sia conclusa non significa che non abbia valore, che non abbia profondità, che non sia importante o che scegliendo di proseguire il proprio cammino da laico si perda la passione educativa e di evangelizzazione che si aveva nella vita religiosa. Anzi, proprio queste persone una volta magari divenute sposi cristiani, portano nel matrimonio tutta la profondità del cammino compiuto e possono offrirlo alla Chiesa tutta, mistero della vita cristiana che è sempre oltre ogni schematismo.

Pensare che solo ciò che dura tutta la vita meriti di essere considerato, sottrae valore al 90% delle esperienze umane, le depaupera, ed è difficile credere che il Signore guardi così al nostro percorso, anzi, come dice Ermes Ronchi parlando della parabola del padre misericordioso: «A Dio basta che tu ti metta in viaggio e ti “vede quando sei ancora lontano”, ti corre incontro, ti si getta al collo, non ti lascia parlare per salvarti dal tuo cuore quando proprio col cuore ti accusi, e ti salva dalla tentazione di appesantirti del tuo passato. Perché alla tua fedeltà preferisce la tua felicità».

Paola Lazzarini

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2 Commenti

  1. Cara Paola,
    Ho letto il tuo articolo e desidero ringraziarti di cuore per aver dato voce alle tante persone che hanno vissuto una uscita da una comunità religiosa.
    Una delle tante sono anche io: ho vissuto ben 20 anni in una fraternità francescana ma poi per esigenze di autenticità e di coscienza ho fatto la difficile e coraggiosa scelta di uscire.
    Le tue parole incarnano benissimo ciò che ho vissuto e che vivo e anche ciò che penso e credo che questo tuo racconto abbia reso “giustizia” a chi vive nell’ombra e nel dolore.
    Grazie davvero…
    Penso che sia giunto il momento di tirare fuori le tante verità nascoste per dare voce a Colui che è “Verità”.
    Ora sto cercando di ricostruirmi una vita ma non è assolutamente facile perché parto da zero: senza un “nome”, senza lavoro, senza un fondo economico (puoi immaginare dopo 20 anni in una comunità religiosa dove ho lasciato tutto), e aggiungo: senza un abito che mi “apriva le porte” a ogni bisogno. È strano e anche difficile ritrovarsi da un giorno all’altro senza “identità” per gli altri!!.
    Mi piacerebbe che questo tuo e nostro grido fosse ascoltato da chi potrebbe, nella Chiesa, fare qualcosa.
    Grazie per il tuo coraggio e per quello che fai nella Chiesa e per la Chiesa.
    Un caro abbraccio.
    Giò

  2. Grazie di queste parole Giorgia, credo che sia importante che parliamo, che queste storie emergano. Così che possano essere dono per tutta la Chiesa.

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