Lettera aperta a Jacqueline Straub (autrice di “Giovane cattolica donna. Perché voglio diventare prete” ed. Gabrielli)

di don Ferdinando Sudati

Cara Jacqueline,

ti scrivo da anziano prete, lieto della tua vocazione e per la tua determinazione a raggiungerla.

La freschezza del tuo scritto mi ha fatto riandare al tema dell’ordinazione della donna nella Chiesa cattolica. Parlo di “riandare” o ritornare perché avevo deciso, da un certo momento in poi, di relegarlo tra gli argomenti triti, noiosi, inconcludenti, come ho fatto per la questione del celibato dei preti, dell’eutanasia e dell’interpretazione di Amoris laetitia. Dicevo a me stesso: non vale più la pena dedicarvi tempo ed energie. Anche se non lo vedrò, verrà il tempo in cui tutto ciò che ora fa da ostacolo cadrà come un castello di carte.

L’istituzione poi di una Commissione di studio sul diaconato femminile, nell’Anno Domini 2016! non solo non mi ha rallegrato, ma mi ha fatto cadere le braccia, anche al pensiero che analoga iniziativa era già stata promossa dal cardinale Ratzinger nel 1992, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, che ne diede l’incarico alla Commissione teologica internazionale. Il responso uscì dopo dieci anni, nel 2002, con una conclusione eruditamente onesta: non è facile capire cosa fossero le “diaconesse” del Nuovo Testamento (cfr. Rm 16,1) o dei primi secoli del cristianesimo[1]. Il problema però è un altro: perché dobbiamo essere bloccati da reliquie di prassi di duemila anni fa? Ora che è normale per alcune Chiese ordinare donne all’episcopato, noi ci mettiamo a studiare la possibilità del diaconato?

Se la cosa mi stupisce è perché sto dimenticando i duecento anni di ritardo della Chiesa, di cui finalmente – cioè in fine vita, quando emergono particolari lucidità e cadono determinate remore – anche il cardinale Carlo M. Martini ha parlato.

Viceversa, non è bello e non infonde speranza leggere le notizie che qui riporto?

Profuga iraniana consacrata vescova di Loughborough: durante una cerimonia guidata dall’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, svoltasi lo scorso 30 novembre nella cattedrale di Canterbury, la rifugiata iraniana Guli Francis-Dehqani è stata consacrata vescova di Loughborough. È la prima donna appartenente a una minoranza etnica a diventare vescova nella Chiesa d’Inghilterra. Figlia dell’ex vescovo dell’Iran, Hassan Dehqani-Tafti, che è stato anche primo presidente vescovo della provincia di Gerusalemme e del Medio Oriente, Guli Francis-Dehqani fuggì in Inghilterra dopo un fallito tentativo di omicidio ai danni di suo padre compiuto da uomini armati che fecero irruzione nella loro casa, sparando e ferendo la madre Margeret. Suo fratello, rimasto in Iran, fu assassinato nel 1980. Durante il servizio religioso altamente simbolico svoltosi il 30 novembre, alla presenza dei vescovi di tutta l’Inghilterra meridionale, Francis-Dehqani ha tenuto il pastorale usato per la prima volta da suo padre in Iran[2].

Inghilterra: primo vescovo donna a Londra. La Chiesa d’Inghilterra ha scelto per la prima volta una donna al vertice della diocesi di Londra: si tratta di Sarah Mullally (coniugata, con due figli, infermiera per 35 anni), la cui designazione – fatta dalla gerarchia ecclesiastica – ha avuto il placet formale della regina, nominalmente capo della confessione anglicana. L’ufficializzazione dell’atto è stata confermata da Downing Street. La reverenda Sarah Mullally, 55 anni, era finora vescovo di Crediton, nel Devon, e succede al reverendo Richard Chartres, ritiratosi a febbraio per ragioni di età. La Chiesa d’Inghilterra […] ha nominato la sua prima donna vescovo nel 2015, quando Libby Lane fu indicata alla guida della diocesi di Stockport. Londra tuttavia rappresenta una sede di peso inedito affidata a una donna: è la terza per prestigio dopo quella di Canterbury – al cui vertice vi è il primate anglicano – e quella di York, entrambe finora sempre guidate da uomini[3].

Ed ecco comparire il tuo libro a crearmi di nuovo interesse per l’argomento. Voglio dirti, prima di tutto, e spero sarai d’accordo, che nessuno può pretendere di essere investito del ministero presbiterale (o episcopale) perché si tratta di un servizio alla comunità, che dev’essere, in forma più o meno diretta, coinvolta nella scelta e nell’approvazione dei candidati ai ministeri. Naturalmente, è lecito e perfino auspicabile presentarsi alla comunità o Chiesa locale per offrire la propria disponibilità al ministero.

Sono quindi convinto che la tua sia una buona battaglia per far evolvere la stagnante situazione attuale, per tentare di far uscire la Chiesa cattolica dal bozzolo di una tradizione che essa stessa ha creato e di cui però si dichiara prigioniera, pur non avendo ormai alcuna ragione di essere conservata. L’obiettivo che ti proponi, che ho chiamato “buona battaglia”, non è facile, e infatti sino ad ora è stato sempre mancato – appunto una battaglia persa! – da coloro che l’hanno tentato. I tempi però cambiano, e nella nostra epoca cambiano con rapidità. Realmente, sono le persone e le circostanze che cambiano con il passare del tempo, e chissà siano quasi giunte a maturazione in ordine alla richiesta che tu fai.

Il tuo obiettivo non è facile anche e soprattutto per un’altra ragione che, immagino, non ignorerai sebbene tu non l’abbia enfatizzata e non possa farlo proprio a motivo di ciò che stai chiedendo. Mi riferisco alla necessità – anche questa ampiamente maturata – di una evoluzione dell’immagine del presbitero/presbitera ordinati e del loro compito nella Chiesa. Sei di sicuro informata dell’esistenza nella Chiesa di una corrente, soprattutto femminile, che è contraria all’ordinazione della donna per il timore – certamente fondato – di cadere in un presbiterato femminile speculare a quello maschile così che contribuisca al perpetuamento della clericalizzazione. In altre parole, tu e le tue eventuali colleghe potreste essere cooptate nel ministero se date garanzia di appartenere alla componente reazionaria della Chiesa, funzionali al suo potere piramidale, e offrendo docilmente una quota di forza-lavoro in più.

In sostanza, le voci critiche più avanzate ci vengono a dire che il sacerdozio “va posto in discussione per gli uomini e non richiesto per le donne”[4], così da scongiurare la riproposta del semplice ampliamento della casta sacerdotale. Il rischio è tutt’altro che remoto, almeno per il medio termine, ma l’obiettivo di aprire tutti i ministeri agli uomini e alle donne nella Chiesa è talmente elementare che vale la pena correre qualsiasi rischio e superare ogni esitazione nell’ammissione della donna al ministero ordinato, perché ciò è in accordo con i tempi, la cultura e il progresso attuali, e perché rappresenta il passo minimo che la Chiesa possa fare per uscire da discorsi fumosi, al limite dell’imbonimento, nei confronti della donna e dare prova che davvero accetta la pari dignità di maschio e femmina, quindi l’uguale capacità di ricoprire  in essa tutti i ruoli.

È arcinoto, infatti, che alle belle parole rivolte alle donne in qualche documento o discorso pontificio – esaltate come coraggiose, intelligenti, perfino geniali, capaci di dedizione, specchio della Chiesa – non è mai corrisposta alcuna reale concessione sul piano della responsabilità e del potere. Sono state sistematicamente escluse da tutti gli ambiti della dirigenza nella Chiesa, nonostante siano proprio esse a tenere in piedi l’aspetto organizzativo concreto delle comunità ecclesiastiche: negli uffici, nelle sacrestie, negli oratori, nella catechesi, nella liturgia, nella carità…, e a dare consistenza alle assemblee liturgiche, sia festive sia feriali. Non essendoci ostacoli né fisiologici né ontologici ma solo ragioni pseudoteologiche a impedire l’assunzione del ministero ordinato – che è ancora oggi la via obbligata per esercitare qualsiasi genere di autorità nella Chiesa -, diventa una questione di semplice giustizia, adeguata alla situazione di oggi, conferirlo anche alla donna. Sostenere il contrario è un anacronismo, esattamente come lo è stato impedire alle donne di votare o negare ai neri i diritti civili.

Se poi qualcuno dovesse sollevare la speciosa questione della “successione” apostolica, e quindi insistere sul fatto che i vescovi sono i “successori degli apostoli”, che erano indubbiamente maschi, gli si può ricordare che sono già state date diverse risposte a tale obiezione, sebbene ne basti una sola: gli apostoli non erano vescovi, quindi non possono avere successori nei vescovi sia del passato sia del presente. O, se  vogliamo, possono avere “successori” nei vescovi quanto nei non vescovi.

Gesù, che non era sicuramente un femminista nel senso moderno della parola, e per lo più non si è staccato dalle regole del suo ambiente culturale, è andato più avanti di Paolo e di altri, venuti generazioni dopo, nel modo di atteggiarsi rispetto alla donna. Rimane il fatto che le Chiese paoline, e le prime Chiese in generale, erano guidate da sorveglianti, da anziani e da servitori, nessuno dei quali aveva un ruolo sacerdotale, benché fossero tutti maschi. È appena il caso di sottolineare che le parole greche che definiscono quei tre ruoli sono, rispettivamente: episcopoi, presbiteroi, diaconoi. Parole che ci suonano familiari nella loro successiva e secolare interpretazione così che non riusciamo più a riconoscere in esse la fondamentale dimensione di laicità. L’imprinting che portiamo dentro le riveste automaticamente di sacralità e clericalismo, tipici del sacerdozio ordinato.

Cara Jacqueline, se il tuo desiderio sarà esaudito – cosa che ti auguro di tutto cuore -, non finiranno i problemi, perché non si tratta solo di avere finalmente l’elemento femminile disponibile per il ministero ordinato ma di traghettare la visione clericale del sacerdozio attualmente dominante verso una forma di ministero e servizio non-sacrale ma semplice e fraterno, e in linea di massima temporaneo. Immagino che, contestualmente o forse con precedenza, si dovrà ammettere il ministero coniugato e il celibato/nubilato facoltativo. A tutto ciò, l’ingresso di voi donne nel ministero potrà dare un grande impulso.

Concludo con un cenno al tuo sport preferito, la boxe. Non ne sono tifoso ma riconosco che ha valenze simboliche di resistenza e di combattimento, rintracciabili perfino nel Nuovo testamento: “Io dunque… faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria” (1Cor 9,26). Sei in buona compagnia. Hai scelto uno sport che è un buon emblema della tua lotta morale e civile per superare un tabù nella Chiesa. Se però, oltre il sano allenamento ed esercizio fisico che comporta, e magari qualche gara amatoriale, dovesse farti diventare famosa, sappi che non mi avrai come spettatore, nemmeno televisivo, ai tuoi incontri!

Ti saluto con stima e affetto.
don Ferdinando Sudati

(pubblicato su Adista Segni Nuovi, n° 16 del 05/05/2018 pp.11-13)

[1] Cfr. L. Sandri, Dal Gerusalemme I al Vaticano III. I Concili nella storia tra Vangelo e potere, Il Margine, Trento 2013, p. 757, e nota 14.

[2] Da: Riforma – settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi – del 15 dicembre 2017.

[3] ANSA – Londra, 18-12-2017.

[4] In L. Sandri, Dal Gerusalemme I al Vaticano III, cit., p. 751.

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