Cammini possibili, rischi e scenari per le donne nella Chiesa

Pubblichiamo la riflessione di Paola Lazzarini, presidente della nostra associazione


L’impianto organizzativo della Chiesa Cattolica rimane uno dei pochissimi ambiti – almeno nel mondo occidentale – ancora caratterizzato da una radicale discriminazione di genere. Le donne cattoliche fanno un’esperienza unica di straniamento, dal momento che vivono in un mondo nel quale possono essere medici, avvocati, muratori, presidenti del consiglio, ma non preti perché appartengono a una comunità di fede che le considera strutturalmente inadatte a svolgere ruoli che le mettano direttamente a contatto con il sacro.
La Chiesa, con Papa Francesco, chiede di accettare questo dato di fatto come una “verità teologicamente fondata” senza fare altre domande, si veda il colloquio con una giovane ragazza che gli chiedeva perché una donna non potrebbe diventare Papa all’interno del documentario di Disney + “Faccia a faccia con Papa Francesco”. Ciononostante non si può pretendere che le domande finiscano solo perché sono scomode e alle donne, che ormai da 60 anni studiano teologia, non bastano ragioni poco argomentate, dato che sono fortunatamente finiti i tempi del latinorum di don Abbondio.
Eppure alle donne credenti si chiede di fatto di abdicare alla propria consapevolezza riguardo alla comune creaturalità, alla comune dignità battesimale, alla conquista storica dei propri diritti e andare avanti.

Vorrei qui provare dunque ad analizzare sinteticamente quali possibili strade le donne possono intraprendere davanti a questo muro, che non è stato minimamente scalfito dalle concessioni dell’accesso ai ministeri istituiti o del voto a un ristretto numero di donne selezionate al Sinodo.
La prima strada che si apre alle donne, spianata dal processo di secolarizzazione nel quale anch’esse sono immerse, è quella di lasciare la Chiesa. Sappiamo che ormai, tra le donne che si professano cattoliche le “mai praticanti” sono più delle “praticanti regolari”. Scrive Linda Laura Sabbadini che: “in 20 anni si è dimezzata la percentuale di donne che si recano in un luogo di culto ogni settimana, dal 44% al 22%” (La Repubblica, 3 aprile 2023), ma è già dal 2008 che le percentuali di abbandono della pratica dopo la Cresima sono pressoché uguali per maschi e femmine. Insomma le ragazze si sono allontanate già da molto tempo.


Le donne si allontanano senza fare rumore, senza proclami, anche perché non è richiesto un atto pubblico come ad esempio in Germania, semplicemente smettono di frequentare come gli uomini avevano già fatto prima di loro e lo fanno normalmente portando i figli con sé.
Questo gruppo di donne, in costante crescita, è contemporaneamente oggetto di preoccupazione da parte della Chiesa istituzionale, che vede i numeri, ma di disattenzione nella pratica pastorale: le donne che frequentavano smettono di farlo e nessuno, nelle comunità parrocchiali, pare accorgersene o comunque ritiene di dover o poter chiederne la ragione.

La seconda strada è ovviamente quella di restare, ma come?
Si può restare perché in sintonia con l’impianto ecclesiale attuale, del quale si diventa promotrici e sostenitrici: è il caso dei gruppi antifemministi più o meno strutturati, che tanta fortuna hanno grazie ad alcune personalità di donne molto note e favorite dalla gerarchia al punto da concedere loro spazi simbolicamente importanti come San Giovanni in Laterano o addirittura San Pietro. Queste scelte si inscrivono nel lungo e fattivo impegno antifemminista della Chiesa, fin dai tempi della Principessa Cristina Giustiniani Bandini e Pio X.
Si può restare perché disinteressate alle dinamiche più ampie della chiesa, ma fortemente impegnate nella vita concreta delle comunità. Questo è probabilmente il gruppo più numeroso tra le praticanti regolari: sono donne a cui non importa granché della diseguaglianza di genere, del diritto di voto o di altro, importa che ci sia l’oratorio estivo per i ragazzi, che si apra il centro d’ascolto tutte le settimane e che il prete celebri tutte le domeniche. Non necessariamente sono donne poco consapevoli, semplicemente accettano di sospendere la propria rivendicazione di uguaglianza per il tempo che trascorrono in Chiesa, perché la considerano una realtà “altra” rispetto a qualsiasi altra componente della società.

C’è poi chi resta con l’intenzione di cambiare le cose. Questo fanno le donne che appartengono ad associazioni e gruppi informali che in tutto il mondo chiedono cambiamenti strutturali. Si legge, ad esempio, nel documento sinodale del Catholic women’s council, una rete internazionale di secondo livello: “Per percorrere il cammino sinodale, la Chiesa deve liberarsi del suo pensiero feudale, dei dettami patriarcali e degli atteggiamenti paternalistici” e ancora: “Le donne hanno articolato un’ampia comprensione del sacramento come esperienza che apre all’incontro con la sacra Presenza di Dio. Tuttavia, la ristretta focalizzazione dell’istituzione sui sette sacramenti definiti dal Concilio di Trento impoverisce la vita sacramentale della Chiesa. In alcuni contesti, i sacerdoti esercitano il loro potere “tenendo sotto controllo” la ricezione dei sacramenti, piuttosto che invitare la comunità a condividere la loro celebrazione”.
Per queste donne “Rivendicare la nostra fede cattolica come donne – nella nostra interezza – è spesso un atto di resistenza”
Questo è numericamente il gruppo di minoranza, tra quante decidono di restare all’interno della Chiesa cattolica, perché presuppone un percorso di liberazione interiore dalla visione ufficiale alla quale siamo state socializzate fin da piccolissime e perché chiede un coinvolgimento attivo faticoso e – spesso – sofferto.
C’è poi una strada ulteriore, che serpeggia tra il “dentro” ed il “fuori” e si tratta della scelta di rifugiarsi nella spiritualità, una spiritualità che – dicono i sociologi – oggi “si denuda della religione” perché si rivolge all’esperienza interiore del singolo o del piccolo gruppo.
Può essere interna alla Chiesa quando non si pone apertamente in contrasto con gli insegnamenti dottrinali, ma in qualche modo li bypassa, privandoli della loro centralità. Quando non è un cammino solitario, ma di gruppo, accade che anche alcuni preti ne siano alla testa, di solito preti noti grazie ai loro libri o alla presenza sui social. I gruppi si ritrovano fuori dai circuiti parrocchiali e aggregano persone unite da una comune sensibilità spirituale. 

Ovviamente l’opzione spiritualista può anche porsi al di fuori della Chiesa, salvando alcuni tratti del cristianesimo e lasciandone altri; ma in entrambi i casi questa tendenza manifesta un sostanziale disinteresse riguardo alla forma storica e sociale della Chiesa Cattolica, che non si vuole cambiare o riformare, ma che resta uno scenario di sfondo, non particolarmente significativo se non come serbatoio di segni, simboli e validazione storica. Sono spazi di libertà e creatività e le donne spesso qui non sono solo protagoniste, ma ministre.

La domanda allora è: dove collocarsi tra le diverse opzioni? Per chi, come me, non può neanche volendo tornare a identificarsi tout court con l’istituzione, restano tre strade e io le ritengo tutte valide e comprensibili, ma anche potenzialmente pericolose.
Lasciando la Chiesa si rinuncia a qualcosa, soprattutto se per una porzione della propria vita la si è vissuta intensamente. A livello personale si abdica a parte della propria identità e storia, a livello sociale a una immensa istituzione, dal potenziale di bene incalcolabile, lasciandola in mando a una casta di uomini celibi.
Restare per “combattere” da attiviste, questa è la mia esperienza personale, pian piano porta ad un esaurimento delle forze e delle speranze. Si diventa ciniche, si disimpara ad assaporare il bello che c’è ad esempio nella vita parrocchiale. È un cammino che rischia di prosciugare, perché il cambiamento auspicato non si vede mai, ma può diventare fecondo se e quando si fa in gruppo, quando ci si sostiene le une le altre a mantenere la fiammella della speranza.
Rifugiarsi nella spiritualità da sole o in piccolo gruppo porta con sè il rischio del disimpegno rispetto alla dimensione sociale e politica della Chiesa, chiudendo gli occhi dinanzi alla realtà che la chiesa è un’istituzione e che ferisce tanta gente: vittime di abusi, donne, divorziati risposati, cristiani lgbt…
Allora che fare? Non ho risposte e sento di ondeggiare io stessa tra queste tre strade, ma intuisco che qui stia il senso di comunità nuove e possibili. Non comunità che si nascondono i problemi, non comunità ciniche e neppure comunità rifugio, ma “attiviste con l’anima”. Comunità che trovano fonti di nutrimento spirituale e sanno essere creative, che sanno aggregare credenti e non credenti, che non temono di essere punto di riferimento per chi cerca giustizia e di esporsi in prima linea.
Comunità come queste possono essere davvero una benedizione per i nostri tempi.

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